“I menàus mangiavano polenta e formaggio.
E per cambiare, formaggio e polenta”.
Lungo i versanti della valle incisa dal torrente Chiarsò si ha la possibilità di ammirare una serie di magnifici boschi, frutto di un’attenta gestione forestale che si tramanda da secoli. Sono boschi che costituiscono un esempio di selvicoltura naturalistica non solo della Carnia, ma dell’intero territorio regionale. Per i territori montani il bosco è tradizionalmente sinonimo di ricchezza; da esso infatti l’uomo ha sempre ricavato materie prime ed una fonte insostituibile di reddito, utilizzando i suoi prodotti per la costruzione di ricoveri per uomini e animali, attrezzi da lavoro, mezzi di trasporto, combustibile.
La figura del boscaiolo assumeva pertanto un ruolo fondamentale nella vita del territorio, conducendo i lavori con capacità, destrezza, ingegno e intuizione. È proprio per conservare la memoria di una delle attività più importanti che ha caratterizzato la Val d’Incaroio, che il gruppo dei Menàus organizza numerose iniziative che mantengono vive le tradizioni e la cultura del territorio.
Lo sfruttamento dei boschi ha inizio in epoca preromana con l’insediamento delle comunità celtiche stanziali. I celti traevano dal bosco gran parte
delle materie prime necessarie alla vita quotidiana ed il combustibile
per la lavorazione dei metalli, attività nella quale eccellevano.
Successivamente fu la Repubblica di Venezia ad adottare precise politiche forestali per salvaguardare il bosco con un corretto utilizzo delle risorse naturali. L’interesse di Venezia era quello di assicurarsi per prima cosa la sicurezza idrogeologica della laguna e poi garantirsi un costante rifornimento di legname: di quercia, per i cantieri navali; di larice e abete rosso, soprattutto, per creare le piattaforme di tronchi conficcati nella sabbia della laguna per creare le fondamenta su cui costruire gli importanti palazzi e le chiese monumentali.
Per regolare le utilizzazioni forestali, difendendo nel contempo i versanti dall’erosione, venne adottato un metodo colturale che, come nei boschi naturali, tendeva ad assicurare la presenza costante sul terreno di alberi
di tutte le età. Il prelievo doveva interessare gli alberi più grossi e più vecchi, quelli che nel bosco naturale sono destinati a crollare a terra, e tutte quelle piante più giovani e piccole che, in ogni caso, fossero eccessivamente numerose.
Prima dell’avvento della motosega (1956) le piante venivano abbattutecon l’accetta (manârie) e con il segone (seòn).
Seguivano poi le operazionidi sramatura, il taglio dei monconi di ramo sui tronchi, la sezionatura,la scortecciatura e l’arrotondamento delle testate dei tronchi.
Quando tutto il lotto era ultimato, si procedeva al concentramento del legname, usando degli attrezzi con un uncino di ferro chiamati sapìns.
A quel punto il legname era pronto per essere trasportato fuori dal bosco, attraverso vie di comunicazione primarie, e quindi alle segherie dove subiva le prime lavorazioni.
Il trasporto del legname, ha conosciuto una continua evoluzione nel tempo; se anticamente si procedeva tramite la soma, la slitta, o il traino animale, successivamente si cominciò a sfruttare lo scivolamento dei tronchi lungo gli avvallamenti naturali.
Ove possibile, si accompagnavano i tronchi lungo i corsi d’acqua, con successivo recupero nei punti di lavorazione o di vendita.Il legname quindi poteva anche essere raccolto in zattere e procedere la fluitazione verso il mare.
Quest’ultimo metodo di trasporto era utilizzato soprattutto in primavera, quando la portata dei torrenti era massima per lo scioglimento delle nevi e per le abbondanti piogge.
Nelle foto in alto (in senso orario):
Cavalletti a treppiede per deviare i tronchi trasportati Stùe di Ramaz
Menàus al lavoro con sapìn e anghîr
La tecnica della fluitazione venne notevolmente perfezionata nel periodo veneziano.
Dove le portate d’acqua non erano sufficienti, per il trasporto a valle dei tronchi venivano realizzati, sul torrente Chiarsò e sui suoi affluenti, degli sbarramenti artificiali chiamati “stùe”, che creavano grandi invasi d’acqua.
All’interno della stùa i menàus accumulavano il legname; successivamente la masse d’acqua veniva rilasciata e in breve tempo trasportava a valle grandi masse di legname.
Per il recupero dei tronchi a valle, veniva costruita una linea di cavalletti, disposti diagonalmente al flusso dell’acqua.
Tali cavalletti a treppiede servivano ad ancorare alcune file di stanghe contro le quali il legname andava a sbattere e deviando si arenava.
Con l’aiuto del “sapìn” e dell’”anghîr” (un lungo bastone di legno dalla punta di ferro), i tronchi venivano quindi tirati verso il punto di raccolta.Tutte le operazioni lungo il tragitto venivano attentamente sorvegliate dai menàus.
Particolare importanza aveva il “menàu di cale”, che veniva calato dai compagni di lavoro con una fune nelle forre per disincagliare i tronchi.
Il ruolo era estremamente pericoloso e gli incidenti erano frequenti (14 i morti, il primo nel 1637, l’ultimo nel 1954).
La costruzione degli impianti, che restavano in funzione anche per diversi anni, coinvolgeva tutta la comunità.
I carichi viaggiavano sospesi su due distinte funi portanti di diametro diverso, rispettivamente per i carrelli carichi e per i carrelli scarichi.
Le teleferiche, gestite da personale altamente specializzato, trasportavano il legname dai boschi a monte fino a fondovalle utilizzando solamente la forza di gravità: sono state il sistema di esbosco più diffuso dagli anni ’20 al 1994 quando ha cessato il funzionamento l’ultima teleferica del Friuli Venezia Giulia sulla tratta Griffon-Dierico.
Quando tutto il lotto era ultimato, si procedeva al concentramento del legname, usando degli attrezzi con un uncino di ferro chiamati sapìns.
A quel punto il legname era pronto per essere trasportato fuori dal bosco, attraverso vie di comunicazione primarie, e quindi alle segherie dove subiva le prime lavorazioni.
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